PROTAGONISTI  14 Agosto 2016

Mera 1976

I fumetti visti per la prima volta come Arte

Nel 1976, esattamente quarant’anni fa, una mostra evidenziava come i fumetti potessero essere considerati a tutti gli effetti una forma d’arte. Ne era l’anima padre Giovanni Maria Colasanti, che nella sua attività come direttore del mensile Messaggero dei ragazzi aveva lavorato per anni in questa prospettiva.

Mera 1976

A volte si hanno eclatanti conferme di quell’adagio che recita “niente di nuovo sotto il sole”. L’evento Sanremo Art & Comics, esteso tra fine agosto e inizio settembre 2016, è una iniziativa di viva attualità e si configura importante perché sottolinea la propria essenza di mostra non solo di fumetti, ma di fumetti d’arte. Una prospettiva tutto sommato insolita, ma che fa tornare alla ribalta dell’attualità un'occasione di uguale indirizzo, risalente però a quaranta anni fa e organizzata come emanazione del Messaggero dei ragazzi, un giornale curiosamente assai diffuso eppure in qualche modo di nicchia: in quanto distribuito esclusivamente per abbonamento, ma ciononostante ad alta tiratura (per lo meno in quegli anni: oggi meno, come tutti i giornali per ragazzi). Ebbene, il Messaggero dei ragazzi, proprio negli scorsi anni Settanta di cui stiamo parlando, cambiò radicalmente pelle, puntando – primo in assoluto fra i suoi congeneri in Italia – a un livello artistico dei propri fumetti. Una tendenza poi “ratificata” in una mostra nel 1976 (dal 26 al 15 settembre) e che era il notevole risultato raggiunto grazie a Giovanni Colasanti, un frate della Basilica del Santo di Padova, che era allora direttore del giornale, che a sua volta era emanazione delle Edizioni Messaggero. Di Colasanti, cade proprio in questi giorni l’anniversario della morte, avvenuta il 17 agosto 1985: è quindi l’occasione opportuna per parlare contestualmente sia di questo antico evento artistico, sia – soprattutto – di Giovanni Colasanti che ne fu l’artefice, avendolo concepito come coronamento del notevole salto di qualità che lui aveva fatto fare al mensile da lui diretto, che da allora assunse una diversa e più penetrante importanza nel panorama editoriale italiano per adolescenti.

Un sintetico flash sul Messaggero dei ragazzi. Il quale ha festeggiato a maggio 2016 il suo numero 1.000, essendo nato nel 1963. Era però l’evoluzione di un periodico precedente, S. Antonio e i fanciulli, nato a sua volta ad agosto 1922. Questo era un giornalino sostanzialmente devozionale, nato come “fratello minore” del Messaggero di sant’Antonio e destinato ai bambini “consacrati a sant’Antonio”, come evidenziava il sottotitolo. Erano poche pagine mensili, poi via via aumentate negli anni e a un certo punto arricchite anche dal colore. Si trattava di articoli illustrati, sostanzialmente educativi (in senso cristiano) e di un fumetto dello stesso tenore.

Poco dopo il compimento dei quarant’anni, nel 1963, il giornalino si rinnovò, assumendo il titolo di Messaggero dei ragazzi, più “moderno”, più evoluto e anche più fumettistico. Inoltre aveva un titolo che era un preciso richiamo al “fratello maggiore”. Qualche anno dopo, nel giro dei normali avvicendamenti, ne assunse la direzione padre Giovanni Colasanti: un dotto biblista ma anche uno studioso di squisita sensibilità giornalistica. È infatti sotto quest’ultima prospettiva che va considerato il lavoro sul giornale effettuato da padre Colasanti, la cui attività in tal senso forse non è mai stata adeguatamente valorizzata. Forse anche come conseguenza del fatto che il “suo” giornale non era (e non è tuttora) di natura tale da essere sotto i riflettori.

Copertina di Jacovitti per il Messaggero dei ragazziNato il 24 agosto 1919 a Rieti, Giovanni Colasanti era stato ordinato sacerdote nel 1944 e si era sempre occupato di studi biblici, campo in cui era titolare di una fitta pubblicistica, tanto da diventare giornalista (iscritto all’ordine) nel 1968. In quel torno d’anni, avendo scritto un piccolo libro per ragazzi sulla vita di San Francesco, che ebbe un certo successo nel contesto delle Edizioni Messaggero (dei Frati Minori conventuali della Basilica del Santo, ai quali Colasanti apparteneva), fu giudicato dai suoi superiori idoneo a ricoprire la carica di direttore di quel giornaletto quasi senza pretese che era allora il Messaggero dei ragazzi. Il povero padre Colasanti si sentiva morire, all’idea di passare dai suoi profondi studi biblici (che per altro non abbandonò mai, neanche in seguito) a una rivistina per bambini, campo nel quale non aveva alcuna competenza. E in effetti sofferse molto per quel cambiamento. Ma fece presto anche a darsi pace (rassegnazione francescana, anzi antoniana!) e affrontò la nuova impresa con una viva sensibilità giornalistica, assumendo il tradizionale pseudonimo di Fra Simplicio, che da sempre distingueva il direttore del giornaletto. Lui era il 14°. Ma disgraziatamente, come tanti altri della sua generazione, non conosceva i fumetti, e anzi addirittura confessava, allora, di non capirli, di sentirli un materiale sfuggente. Il gioco delle combinazioni casuali volle che venisse in contatto con me, che cercai di sensibilizzarlo all’importanza di questo mezzo espressivo.

Padre Giovanni ColasantiSottolineo che fu opera del caso, il quale “manovrò” i destini nel seguente modo. Colasanti, essendo scrupoloso e comunque, per così dire, zelante e aggiungendo che poi si appassionava ai compiti che gli venivano assegnati, aveva frequenti occasioni di recarsi a Roma. Allora ne approfittava per andare a consigliarsi e… ad acculturarsi sui fumetti da Lino Landolfi, vecchio collaboratore del giornale e titolare di una notevole esperienza in campo fumettistico. In quel periodo, anch’io avevo una corrispondenza abbastanza fitta con Landolfi: chiacchieravamo – via lettera, perché la posta elettronica “non era ancora nella mente di dio”, come si dice – specie su faccende teoriche riguardanti il fumetto: ed era un piacere perché lui – chiacchierone come me – era ormai un fumettaro di lungo corso e di molto prestigio (in quegli anni, ho visto nascere in anteprima, a mano a mano che li faceva, sia il suo Don Chisciotte sia Padre Brown). Sicché, a Colasanti lui disse fra l’altro: “come, vieni a parlare con me a Roma, facendo centinaia di chilometri, quando hai a portata di mano Gianni Brunoro, a Padova. Perché non parli con lui?” E Colasanti, che non mi aveva mai nemmeno sentito nominare, mi contattò, per conoscermi e consigliarsi con me sui problemi del giornale. In particolare, su come realizzare le sue intenzioni, sul poter migliorarlo secondo le sue visuali. Naturalmente, a me in quanto “critico” non sembrava vero che fosse il direttore di un giornale a chiedermi consiglio. Ragionando con lui, analizzando la natura del giornale, io rilevai che dato il suo tipo di distribuzione, il Messaggero dei ragazzi non “soffriva” del ricatto dell’edicola, ossia non aveva la necessità – come altri giornali – di fare attenzione ai condizionamenti commerciali. E per converso, poteva accentuare i requisiti artistici. E a lui, che mi obiettava di non conoscere né i fumetti, né eventuali fumettari, dissi di provare a contattare (avevo in mente le attività e gli esiti di Linus) nomi che allora erano un po’ la crema dei disegnatori italiani: feci espressamente i nomi di Dino Battaglia, Sergio Toppi, Giorgio Trevisan (e gli dissi di valorizzare Piero Mancini, che collaborava al giornale da molti anni, ma secondo me non era utilizzato al meglio).

Yoko Tsuno sul Messaggero dei RagazziDevo dire che Colasanti, con notevole sensibilità giornalistica, fagocitava rapidamente tutto ciò che gli consigliavo. Soprattutto, si rese conto delle possibilità educative (anche in senso estetico) sia del fumetto in sé stesso, sia della componente fumetto sul “suo” giornale: sicché rapidamente il Messaggero dei Ragazzi acquisì l’impronta decisa della sua personalità. Altrettanto gradualmente, da quel lontano 1969 in cui ci conoscemmo, il giornale andò cambiando con l’introduzione di cose nuove, inusitate e “belle” (per esempio, consigliati da me, ossia un critico, entrarono al giornale certi fumetti esteri mai pubblicato in Italia, come Il Giudice Dee, basato sui corrispondenti e raffinati romanzi gialli ben noti agli appassionati italiani di questo “genere” letterario; o anche un personaggio nuovo sotto vari aspetti, come Yoko Tsuno). Ma soprattutto è stato molto opportuno l’approccio con i citati autori-principe del fumetto italiano, che sotto l’influsso di padre Colasanti fecero cose che fino ad allora non avevano mai pensato di poter fare. Potrei dire che i massimi fiori all’occhiello di padre Colasanti possono essere la libertà concessa a Battaglia e a Toppi. Non a caso, il primo fece per il Me-Ra – nomignolo affettuoso del giornale – quel Frate Francesco e i suoi fioretti che contribuì in maniera fondamentale a farlo conoscere all’estero, grazie anche alla sua reinvenzione grafica della pittura rinascimentale. E quanto a Toppi, proprio per il Me-Ra egli portò finalmente a compimento quella sua evoluzione grafica che fino ad allora gli era rimasta inespressa, magari anche per certa miopia degli editori. Di questi meriti, specialmente i due disegnatori non hanno mai lesinato in attribuzioni a Colasanti.

 

Per esempio, Omero Pesenti, nel suo saggio Il Toppi (ed. Eremon, 2015) riferisce quanto segue:

“L’incontro che lui stesso definisce 'speciale' lo ha con padre Giovanni Colasanti, un francescano che dirige, dalla Basilica del Santo di Padova, il Messaggero dei Ragazzi. Questo sacerdote, biblista colto e intelligente, dà a Sergio, forse per la prima volta, la più completa libertà nel fare i fumetti, affrancandolo da qualsiasi imposizione per l’ingabbiatura e l’inquadratura. Il Toppi non tornerà più indietro. Si sente quasi un miracolato per questa totale fiducia e prova sempre più affetto verso quell’uomo di chiesa che non invade mai la sua sfera personale, pur diventando una delle persone sulle quali Sergio può contare, e non solo materialmente. 'Un sant’uomo', così lo definisce Toppi”.Copertina di Toppi sul Messaggero dei ragazzi

E ancora di più ne parla in senso largamente positivo Dino Battaglia. Nel saggio Battaglia Une Monographie (ed. Mosquito, 2006) Michel Jans dialoga con Laura Battaglia, che afferma [mia traduzione]:

“Jans: Cosa può dirci di padre Colasanti, che sembra avere avuto un grande ruolo editoriale e umano?

Laura: Padre Colasanti, direttore del Messaggero dei ragazzi, era per Dino un sant’uomo, benché non fossero sempre d’accordo sulle rispettive concezioni religiose. Era un uomo intelligente che ha saputo far crescere un giornale relativamente mediocre, per farne una pubblicazione con Sergio Toppi, Piero Mancini e altri ottimi disegnatori. Il primo lavoro fatto per lui da mio marito fu su Padre Kolbe, storia di un religioso in campo di concentramento nazista. Inoltre Colasanti aveva il senso delle opportunità perché quando ha convinto mio marito a fare San Francesco sapeva che nel 1976 cadeva un centenario e che ciò avrebbe avuto dunque una attualità editoriale. Ha saputo insistere, commuovere e farsi capire, era una personalità straordinaria e in certo senso Dino l’apprezzava molto.

Jans: Nella carriera di Battaglia c’è una costante: la sua collaborazione con giornali cattolici. Come in Belgio e in Francia, la chiesa ha occupato il terreno delle pubblicazioni, dai teenager ai giovani. Comprendiamo che suo marito sia andato là dove c’era lavoro, ma la qualità di queste storie evidenzia un investimento ben altro che mercenario.

Laura: Certo... Mio marito aveva delle idee particolari, non credeva ai dogmi: la Vergine Maria… Cose del genere non gli piacevano. Però amava le leggende ed è stato dopo aver visto una statuetta in legno di San Cristoforo che gli è venuta l’idea di farne la storia. La spiritualità che emanava da questa statuina l’aveva commosso e fu così che la propose a padre Colasanti. La storia di San Giorgio è nata invece dal quadro di Carpaccio che Dino aveva spesso ammirato a Venezia; poi abbiamo voluto fare la storia di San Brandano che, partendo dall’Irlanda, va all’inferno. Fu allora che Colasanti propose a Dino di fare San Francesco. Ma Dino temeva che una tale spiritualità non fosse nelle sue corde. Colasanti, insistendo, lo ha convinto a fare dei brevi episodi di sette, otto tavole dai Fioretti. Poi mio marito si innamorò del personaggio… Non è uno di quei santi dalla pia immagine, ma un uomo in carne e ossa che ha sofferto per amore del prossimo. Era questo l’aspetto della religione che soprattutto lo toccava, non le forme di spiritualità. Mio marito aveva avuto un’educazione molto religiosa, in famiglia hanno avuto un prete. Ma Dino aveva conservato una forma di scetticismo, però credeva nell’amore del prossimo. […] Con padre Colasanti del Messaggero dei ragazzi guadagnava un po’ meno, ma gli importava poco, perché poteva fare tutto quel che voleva”.I fioretti di San Francesco disegnati da Toppi

Di tutto ciò, e dell’importante ruolo del suo giornale – dopo ciò che aveva “imparato” dirigendolo per anni e attraverso i contatti con disegnatori e altre personalità – Colasanti era diventato del tutto consapevole. Deriva da ciò la sua idea di dare risalto a questi importanti traguardi raggiunti dal Messaggero dei ragazzi, evidenziando – grazie alla mostra Mera ’76 – attraverso quale lavorio era stato raggiunto dal suo giornale il traguardo di dare al fumetto una dignità artistica: era soprattutto questo, che lo interessava. Perché dimostrava l’ormai concreta esigenza, per tutti, di indirizzare gli sforzi verso la promozione qualitativa del fumetto, con innegabile vantaggio per la sempre più consapevole evoluzione culturale dei giovani, i più diretti destinatari di questo messaggio moderno e affascinante. Era una mostra sicuramente originale. Lo stesso Salone di Lucca – irrinunciabile riferimento di allora per quanto riguarda i fumetti – pur organizzando nelle sue attività annuali molte mostre su questo medium – allora valorizzato da pochi anni in senso estetico e comunicativo – non ne aveva mai comunque sottolineato la specifica vocazione in prospettiva di mostre d’arte.

Dunque, “questa” mostra Mera ’76 era costituita da circa 150 tavole originali di fumetti disegnati per il giornale padovano nei pochi anni precedenti da Dino Battaglia, Piero Mancini, Sergio Toppi e Giorgio Trevisan. E intendeva programmaticamente mettere a disposizione di tutti gli interessati – beninteso, gli appassionati, ma anche gli educatori e i critici d’arte – veri e propri materiali di studio. Perché, in effetti, tale messe di originali oltre a permettere un’esemplificazione di natura didattica o dei confronti tecnici fra il lavoro diretto dell’artista e la successiva fase della stampa, ha permesso di valutare criticamente le capacità espressive del fumetto come mezzo di comunicazione non banale. Mezzo cioè attraverso il quale è possibile veicolare contenuti di buon livello artistico, suscettibili di fruizione anche nel settore educativo e parascolastico. Il loro alto livello artistico è stato comunque rilevato anche dall’allora presidente della Biennale di Venezia, Carlo Ripa di Meana, che aveva accettato di esporne una relazione introduttiva, e aveva annunciato a titolo di indiscrezione che in base a studi degli aspetti artistici del fumetto la stessa Biennale avrebbe dedicato al medium ampio spazio nella sua edizione 1977.

In mostra erano stati esposti i lavori impostati su veri e propri filoni, come per esempio uno dedicato alle biografie di santi di ogni tempo, visti non nella luce agiografica tradizionale ma nel contesto sociale della realtà del loro tempo; o un altro, dedicato a biografie di grandi uomini politici dei decenni attuali, per mettere in rilievo come non vi sia sostanziale divergenza fra i grandi ideali umani e gli ideali cristiani (racconti poi raccolti in volume). Erano tali filoni, nella fattispecie, quelli affidati alla realizzazione di Battaglia, Mancini, Toppi e Trevisan, le cui tavole erano esposte alla mostra.

La quale ha avuto a suo tempo riconoscimenti significativi. A parte la visita di personalità – per esempio l’allora presidente del senato Amintore Fanfani con la moglie, o il Patriarca di Venezia cardinale Albino Luciani (diventato poi papa, morto però dopo pochi giorni, sollevando su quel brevissimo papato un nugolo di sospetti) – ne parlarono sui loro periodici parecchi giornalisti, per esempio Gianfranco Del Giudice sulla terza pagina de Il Mattino di Napoli, Piero Zanotto sulla Gazzetta di Parma, Teresa Buongiorno sul Radiocorriere TV, Giancarlo Granziero e Silvano Mezzavllla sul settimanale 7 Giorni Veneto, Dario Nicoli sul Resto del Carlino di Bologna, Luigi Montobbio sul Gazzettino di Venezia, Antonio Fugardi sull’Osservatore della domenica, settimanale dell’Osservatore Romano vaticano, e altri. Se mi sono dilungato su questo consistente elenco di nomi, è solo per sottolineare come l’originalità della mostra, a suo tempo, non sia affatto sfuggita né passata sotto silenzio. E sono interventi idonei non solo a sottolineare la validità della mostra, ma capaci anche di affrontare in chiave critica il grande tema proposto: l’elevazione a livello artistico di un genere figurativo di largo consumo popolare.

Della propria azione “maieutica” Giovanni Colasanti si rese alla fine perfettamente conto. Tanto che alla sua funzione funebre – quando aveva ormai lasciato da anni la direzione del giornale – venne letto un suo testamento spirituale, nel quale egli diceva fra l’altro: “mi rivolgo a voi, cari amici vicini e lontani, presenti e assenti, uomini e donne, che per oltre 15 anni avete lavorato con me – insieme a me – per fare del Messaggero dei Ragazzi una bella rivista, ricca di colori e di pensieri puliti, per aiutare tanti ragazzi d’oggi a risolvere i loro piccoli problemi e a prepararli per un domani più umano e cristiano”. È l’eredità che in effetti è stata da lui lasciata al futuro del giornale, quella che attualmente ha portato il Me-Ra a quel prestigioso traguardo che si è detto, il numero 1.000; e che fra le secche e le difficoltà che caratterizzano oggi tutta l’editoria, specialmente dell’arco adolescenziale, fa occupare al Messaggero dei ragazzi un posto di assoluta dignità.

Gianni Brunoro